In Novelle classiche, pubblicate quest’anno in Italia da Il Canneto Editore di Genova (con le traduzioni di Nora Gattiglia e Maddalena Bixio), l’autore Alberto Manguel tesse storie senza tempo, intrecciando la letteratura della tradizione classica occidentale con gli eventi che riguardano l’umano in ogni tempo.
Il volumetto (esile, ma non per questo meno prezioso) si apre con il titolo del primo racconto, subito seguito da una citazione, posta anche in calce a The Waste Land di T. S. Eliot e tratta dal Satyricon di Petronio; in queste poche righe, si dice della Sibilla Cumana che, interrogata dai bambini sui propri desideri, da dentro una bottiglia risponde di voler morire.
Ella è infatti destinata a una continua vecchiaia e a vedere il proprio corpo farsi sempre più piccolo, avendo chiesto ad Apollo, che l’amava, una lunga vita, ma essendosi poi rifiutata di scambiare la propria verginità con la giovinezza.
E proprio la figura della Sibilla Cumana è, insieme a Ulisse, la protagonista del primo dei tre racconti, Il ritorno di Ulisse. Vecchia profetessa veggente e conduttrice di Enea nell’oltretomba nel Libro VI dell’Eneide, la Sibilla è, sotto la penna di Manguel, una vecchia muta, dalla “testa antica” e, anche qui come nella leggenda, meta di domande (e derisione) dei bambini che a lei si rivolgono con impertinenza; solo alla fine, dopo aver ricambiato lo sguardo di Ulisse, il quale le porrà un quesito che al lettore rimarrà per sempre misterioso e inconoscibile, la Sibilla libererà un lamento e un suono così acuto da risultare inudibile alla folla.
Manguel gioca con la tradizione: da un lato, dà carne e confine a figure mitologiche tramite i corpi di esistenze possibili ancora oggi, dall’altro, conferisce profondità e volume alle figure senza tempo che però vivono nel tempo. Ulisse è allora colui che ritorna a casa simile a un migrante dei giorni nostri; l’ironia e la tragedia, il presente e il passato si mischiano nell’immagine di Atena, dea protettrice di Ulisse, che domanda denaro per la traversata (“Atena aveva voluto il pagamento per intero prima di condurlo alla nave”, p. 9). Invecchiato e smarrito, Ulisse non riconosce la propria terra (una situazione che richiama alla mente l’Ulisse odissiaco: “e non la conobbe, da tanto n’era lontano”, Odissea, Libro XIII, vv. 188-189, traduzione a cura di Rosa Calzecchi Onesti).
In questo racconto, che è costruito su un crescendo e una ricerca e in cui l’inconoscibile rimane tale, si assiste a una scrittura di pura tensione che culmina in un incontro senza parole tra due viventi attempati, quasi a mostrare che la scrittura non serve a determinare una soluzione o uno svelamento ma a dire con precisa intensità la vita nel suo farsi incomprensibile.
L’Eneide virgiliana, che lega i testi del volume l’uno all’altro, riappare ancora attraverso il Libro VI (nella citazione del verso 614, inclusi poenam expectant), nel secondo racconto, dal titolo Padre e figlio. Qui il giovane Adeodato, in punto di morte, è un ragazzo che ripensa al padre assente, il celebre Agostino di Ippona; egli viene presentato quasi come figura opposta alla Sibilla Cumana, giovane destinato a una breve vita e a credere solo a Virgilio (“Una volta, aveva sentito la nonna dire a suo padre: «Tu credi solo a Virgilio», e dentro di sé aveva capito che anche lui era quel tipo di credente”, p. 38), i cui versi egli ama recitare come una preghiera in solitudine o vegliando il corpo della nonna morta.
Lo scrittore sceglie di interrogare quindi attivamente la tradizione attraverso Virgilio (definito da T. S. Eliot “classico universale”); se Ulisse è il migrante eroico della contemporaneità, l’autore dà poi voce all’anima laica e moderna di Adeodato, quasi a compensazione dell’abbandono del padre Agostino, divenuto poi il celebre santo cattolico. Adeodato, alla cui intelligenza il padre allude in alcuni dei suoi scritti, desidera infatti che dopo la morte non sia necessario disprezzare le bellezze della vita per rifugiarsi in uno spazio superiore (“Nella sua mente il ragazzo preferiva altre zone di quel regno lontano. Voleva che quel luogo fosse una risposta alle sue paure, un’immagine riflessa del mondo che conosceva, e non un luogo migliore, glorioso, di fronte al quale ci si aspettava che fosse naturale diprezzare tutto ciò che amava qui”, p. 37). Qui Manguel sfida il limite della scrittura provando a dire la fine della vita dagli occhi di un morente, fino alla meravigliosa scena di un’oscillazione ultima tra l’evento impersonale che riguarda ciascun essere vivente e la morte individuale.
E sarà proprio il poema virgiliano, ancora una volta, a segnare la vita di solitudine di Angelica Pirovano, presa in un “apatico sconforto”, a Buenos Aires durante la crisi del 2001; nel racconto Sortes vergilianae, il cui titolo riporta indirettamente alla figura iniziale della Sibilla, per la maestra in pensione, che obbedisce a Virgilio, proprio la lettura dell’Eneide risulterà fatale.
In questo testo che chiude il volume, Manguel mostra l’insopprimibile bisogno dell’individuo di avere delle risposte e di poter immaginare il futuro; con un sorriso amaro, mette in scena la tragicità di una vita affidata soltanto alla sorte, quasi a chiarire l’aspetto ridicolo di un passato rivissuto letteralmente e pedissequamente o solo subìto.
La fine delle cose, le molteplici morti all’interno della stessa vita (si legge in Il ritorno di Ulisse: “Una domanda era andata prendendo forma da quando se ne era andato da casa, nei primi anni della guerra, e dopo la sua prima morte, e poi dopo la seconda, e ancora verso la fine dei combattimenti e la caduta della città […]”, p. 18; e in Padre e figlio: “Fu in una di quelle passeggiate che aveva assistito alla sua seconda morte”, p. 39), il sentimento di non appartenenza, lo smarrimento insieme all’esperienza dell’incalcolabile e dell’imprevedibile, sono dimensioni che attraversano tutti e tre i racconti di questo libro, preso in una continua ma sommessa alternanza di tragico e ironico, sempre perfettamente dosati.
Ecco che la letteratura del passato, mai posta come orpello o come ingombro e sfoggio del proprio esser dotti, entra nel presente, lo modifica, e, allo stesso tempo, l’adesso fa suo il già accaduto e lo perpetua secondo le proprie forme particolari.
Alberto Manguel riesce a creare all’interno di questi brevi racconti un ritmo che spinge innanzi la lettura fino a un vuoto irrisolvibile, a partire da eventi umani inverati da quello stesso passato a cui essi danno corpo e figura individuale e, perciò, altrettanto reale; l’autore mescola quindi sapientemente presente e passato per costruire storie di fantasia che si mostrano però come sempre possibili in ogni tempo, giacché attingono frontalmente all’umano.
A impreziosire ulteriormente questo libro, sette bellissimi disegni di Rachid Koraïchi.
ancora una volta invogliate alla lettura! Grazie per additare nuovi orizzonti,
Che bello, complimenti all’autore e anche all’editore; un volume davvero imperdibile.
Grazie Giovanna – sempre feconda di stimoli!
E’ interessante la capacità di scegliere testi che trattano temi universali e che si snodano oltre il tempo , presentandoli con la leggerezza di una scrittura fluida ma pregnante di senso.
Bravi ragazzi ! Mi permetto un suggerimento: proprio per i temi trattati e lo spessore delle vostre presentazioni, vedrei bene un ritmo più slow. Come un cibo ricco di sfumature e di sensazioni piacevoli va assaporato in intensità, così le vostre recensioni dovrebbero lasciare più tempo all’introiezione e alla gioia della lettura.
Grazie per quanto ci offrite con l’entusiasmo e la freschezza della vostra giovinezza.